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Trascrizione

Ascoltiamo e leggiamo insieme l'intero secondo capitolo del mio giallo ambientato a Ferrara.

"La nemesi dell'Aquila" è il primo libro della trilogia: "FERRARA e l'ABISSO della COLPA"

La misteriosa Ferrara si tinge di giallo il BLOG di Daniele Meschiari.


CAPITOLO DUE

Questura di Ferrara Ore 09:00 mercoledì 14 maggio 2014

Andrea Camponeschi entrò puntuale dalla porta, gettò uno sguardo interrogativo verso l’ispettrice Alessia, lesse la targhetta posta sulla sua scrivania e senza esitare si diresse verso la mia postazione. Protese la destra, scandendo nome e cognome, aspettandosi da me lo stesso gesto. «Si accomodi, sono il vicequestore Ferrari,» informai, con enfasi, eludendo la prevedibile risposta al suo gesto di saluto e costringendolo a sentirsi un po’ a disagio, nei miei confronti. Una vecchia strategia di approccio, sempre valida quando non conosci bene il tuo interlocutore. Si sedette, visibilmente contrariato dal mio apparentemente ineducato modo di presentarmi. «Suo fratello, non è venuto?» «Non ci siamo ancora visti. Sono partito all’alba da Varese e, come da mia abitudine, adorando alzarmi presto, ho viaggiato nelle prime ore del mattino, le migliori, per guidare. Carlo è com’era suo padre, ama stare sotto le coperte e partire all’ultimo minuto, adora la vita comoda ed è sempre in ritardo. Conoscendolo, sarà partito da Roma ieri sera e avrà dormito a Ferrara, in qualche hotel vicino alla Questura.» «Scusi, perché ha detto è come suo padre? Non siete fratelli?» «Fratellastri, in verità,» precisò. «Quando mia madre sposò il mio patrigno, nel 1980 a Roma, io avevo già sei anni. Due anni dopo nacque Carlo, un bel fratellino di quasi quattro chili. Il rapporto tra di noi è ottimo, siamo molto legati e le nostre famiglie hanno frequenti contatti. Io e mia moglie siamo stati molto vicini a mio fratello quando, quattro mesi fa, fu colpito da una terribile disgrazia. Suo figlio fu investito da un’auto pirata, mentre in bicicletta tornava a casa. «La morte del piccolo lo distrusse mentalmente e fisicamente. Adesso sta lentamente e faticosamente riprendendosi. Con il nostro aiuto e la nostra costante presenza abbiamo cercato di aiutarlo in tutti i modi. L’omicidio del babbo non ci voleva proprio, credo che questo dramma vanificherà tutti i progressi che aveva ottenuto in questo ultimo mese.» «Capisco. Sarei molto curioso di sentire anche suo fratello. Vista l’ora, dovrebbe essere già arrivato in Questura. Può darmi, per cortesia, il numero del cellulare?» Provai diverse volte a comporre il numero datomi da Andrea, ma il centralino continuava a rispondere con il solito messaggio registrato: «il telefono con il numero da lei selezionato risulta spento o non raggiungibile.» Non capii subito il perché ma, all’ennesimo tentativo fallito, iniziai a sentire un brivido freddo, partiva dallo stomaco e saliva fino al cervello. Per la mia esperienza, quella sensazione presagiva sempre grossi guai. «Marini, per cortesia, controlli gli arrivi negli alberghi del centro da ieri mattina.» La richiesta fu fatta ad alta voce, ma intanto, dentro di me, si faceva strada un bruttissimo presentimento. Il volto del signor Andrea perse colore e la bocca si ripiegò in una smorfia di sgomento. «Lei pensa... lei crede sia successo qualcosa a mio fratello?» Quasi leggesse i miei pensieri. «Dio non voglia, ma è meglio sincerarsi del motivo del ritardo. Rispetto all’orario fissato per il nostro appuntamento è trascorsa quasi un’ora!» Passarono altri dieci minuti, che sembravano eterni, prima che Alessia interrompesse i brutti pensieri miei e del mio ospite. «È confermato. Il signor Carlo, ieri notte, è sceso all’hotel Antica Regina.» «Lo conosco,» dissi, rivolgendomi a Camponeschi. «Lo ricordo come un piccolo ma raffinato residence con una ventina di camere. È inserito in un elegante palazzo quattrocentesco, situato in una zona tranquilla, del centro.» Sempre più preoccupato, mi rivolsi alla Marini: «Mi passi la reception dell’hotel.» Due squilli. Al terzo arrivò la risposta. «Buongiorno, reception dell’hotel Antica Regina,» rispose una voce femminile, molto gentilmente. «Desidera?» «Buongiorno signora o signorina, è in linea con la Questura di Ferrara, dottor Ferrari.» «Buongiorno dottor Ferrari, come posso aiutarla?» «Potrebbe cortesemente confermare, con assoluta certezza, che il signor Carlo Camponeschi ha occupato la notte scorsa una vostra camera?» Una decina di secondi di silenzio e poi la voce della donna rispose sicura: «Sì, è confermato, aveva prenotato ieri verso mezzogiorno, per due notti. Si è presentato ieri sera alle 20:30 e ricordo che era salito subito in stanza, perché molto stanco per il viaggio da Roma.» «Risulta abbia lasciato la sua camera?» La risposta mi raggelò: «La chiave della stanza 101 non è stata riconsegnata, sto provando anche a chiamare il cliente ma non risponde, se vuole mando qualcuno, di persona.» «Lo faccia, lo faccia subito, attendo in linea.» Trascorsero quattro, forse cinque interminabili minuti prima di udire la voce concitata di un uomo, che mi comunicava quello che non avrei mai voluto ascoltare. «Pronto, dottor Ferrari, sono il direttore dell’hotel.» «Sì, mi dica direttore.» Con la voce, rotta dall’emozione iniziò a parlare, lentamente. «Purtroppo, è accaduta una cosa terribile... non riesco a trovare le parole per spiegarlo, dovete venire subito e vedere con i vostri occhi, è un omicidio terrificante, incomprensibile. Presto intervenite subito... vi prego!» Mi alzai rapidamente dalla sedia e rivolsi una domanda, con tono deciso, all’ispettrice Marini. «Dove trovo l’ispettore capo Nardi?» «Lo dovrebbe trovare giù in archivio, ha detto che doveva controllare dei documenti riguardanti un suo vecchio caso.» Mi avvicinai ad Alessia e, con un tono basso della voce, le chiesi di occuparsi di Andrea. «Lo tenga occupato fino a quando non ritorno, voglio essere io a informarlo dell’accaduto. Non deve uscire o parlare con chicchessia. Non deve sapere che gli hanno ucciso anche il fratello!» «Torno subito, mi attenda qui,» esortai, con tono perentorio verso il mio sfortunato ospite. Per tutta risposta, mi bloccò il braccio con forza e replicò al mio invito, alzando la voce: «Cosa è successo a mio fratello? Me lo dica subito... la prego.» Mi liberai dalla presa, cercando d’inventare, sul momento, una risposta plausibile alla sua legittima domanda. Alla fine, improvvisai con una delle più banali. «Adesso non posso parlare, deve aspettare, mi scusi.» Approfittai del momento di pausa tempo, che precede la replica dell’interlocutore, a me favorevole, per uscire rapidamente dall’ufficio. Infilai le scale e scesi fino all’archivio. Trovai Nardi, gli spiegai cosa era accaduto, che avevo bisogno del suo aiuto e che saremmo andati insieme all’hotel Antica Regina. Ci dirigemmo subito al parcheggio e salimmo sull’auto di servizio. Accesi la sirena, mentre Nardi, alla guida del mezzo, si diresse rapidamente verso il luogo del delitto, che si trovava a solo pochi minuti di strada dalla Questura. Entrammo dall’ingresso del giardino dell’albergo. Era impossibile non notare quanto fosse silenzioso ed elegante quel luogo rinascimentale. Un delizioso chiostro contornava il piccolo giardino e da qui si entrava nella hall. L’impiegato si affrettò a condurci alla stanza 101, che si trovava al primo piano. Appariva spaventato e desideroso di lasciarci al più presto. Infatti, si defilò in gran fretta, salutando. La porta era stata richiusa, evitando che qualche cliente dell’albergo, casualmente, potesse vedere la tremenda scena che si aprì, poco dopo, davanti ai nostri occhi. L’ispettore Nardi aprì lentamente la porta e: «Dannazione! Ma cosa...?» Imprecò, trattenendo a stento un conato di vomito. Mi fece segno di entrare, agitando la mano e allora fui costretto anch’io a guardare all’interno della lussuosa stanza d’albergo. Il mio primo pensiero fu quello che non avrei vissuto mai abbastanza per riuscire a dimenticare una scena simile. Avevo avuto visione di simili nefandezze solo in certi brutti film dell’orrore e letto di queste atrocità in tremendi racconti di guerre tra turchi e cristiani. Il povero Carlo era stato impalato! Come palo, erano stati usati gli appuntiti lunghi laterali, fissati alla base delle testate dei letti. Questi ferri erano indipendenti dalle spalliere artigianali in ferro battuto. L’assassino aveva unito i due letti singoli creando, di fatto, nel punto di contatto delle due lance, un unico palo su cui aveva fatto scorrere il corpo, infilandolo dall’alto. Carlo non aveva nessun tipo di bavaglio o straccio infilato nella bocca; quindi, era sicuramente stato ucciso prima della macabra messa in scena. In caso contrario avrebbe svegliato tutto l’albergo, con le sue urla di dolore. Carlo era completamente nudo e dagli evidenti segni presenti sul collo, poteva essere stato strangolato. Era evidente un legame tra questi due recenti omicidi. Ora diventava tutto ancora più oscuro e complicato. Questa volta, il misterioso assassino non aveva lasciato messaggi o avvisi, la cosa non rendeva il collegamento meno probabile e l’inutile crudeltà, nei due delitti, era molto simile. La morte di un padre e di un figlio, nella stessa città a due giorni di distanza l’uno dall’altro, diventava spiegabile solo se il movente fosse stato identico. «Diamo un’occhiata qui intorno e nel frattempo chiami subito la scientifica. Isoli la stanza e tutto il piano e si faccia dare i nominativi di tutti i clienti che hanno pernottato.» «Voglio nome e cognome di tutti gli inservienti e controlli se manca qualcuno all’appello. Torno in ufficio, ormai, purtroppo, non posso più fare niente di utile qui, a meno che lei, Nardi, a un primo sguardo abbia rilevato qualche anomalia.» L’ispettore era diventato sempre più pallido e insofferente, alla vista della macabra scena. «No, dottore, nulla di particolare... è veramente disgustoso, questo assassino...bisogna assolutamente fermarlo.» Uscii nel giardinetto, mentre il cielo si stava annuvolando. Respirai due grosse boccate d’aria pura e finalmente mi sentii meglio. Meglio andare prima che cominci a piovere. Non è giornata, pensai. In Questura mi aspettava un ingrato compito. Dovevo comunicare ad Andrea della morte del fratello e soprattutto spiegargli il modo in cui lo avevano ucciso. Troppo complicato, cercai ma non riuscii a trovare le parole adatte per farlo. Decisi che era meglio non fargli capire il perché di questo nuovo orribile delitto. Arrivai all’Anticrimine appena in tempo per vedere la Marini che, disperata, cercava di calmarlo e trattenerlo. Era come impazzito, trascinava le gambe, si muoveva in lungo e in largo per la stanza urlando, chiedendo notizie del fratello. Appena mi ebbe nel suo raggio visivo, cominciò a incalzare ad alta voce, con una serie di domande. «È tornato...finalmente, cosa succede? Dov’è Carlo? Come sta?» «Adesso, per cortesia, si segga, dobbiamo parlare, non m’interrompa, per favore,» risposi con tono serioso. Quando fu seduto, aiutato anche da Alessia, ripresi la parola, dosando, bene ogni parola che gli dicevo. «Purtroppo, devo comunicarle che suo fratello Carlo è stato ucciso, nella sua camera, nell’albergo, stanotte…» Come era prevedibile, non riuscii a terminare la frase. La voce inaspettatamente stridula di Andrea inondò la stanza. «Cosa sta dicendo? Mio fratello ucciso e da chi? Come? Oddio no, anche Carlo e mio padre, perché?» In un attimo perse l’autocontrollo che fino a quel momento lo aveva sorretto e gli aveva dato la forza per non esplodere in mille pezzi. Scoppiò a piangere e a singhiozzare, sfogando in un attimo tutta la disperazione che aveva trattenuto. Non potevo e non sapevo rispondergli. Non sarei certamente riuscito a calmarlo, esponendo i fatti come erano avvenuti nella realtà, soprattutto se avessi dovuto raccontargli quello che avevo visto in quella camera d’albergo. «Non posso essere più preciso, purtroppo. Capisco il suo immenso dolore e la sua voglia di sapere, ma le cause della morte non sono ancora ben chiare. Le indagini stabiliranno se esista un collegamento tra l’omicidio di suo padre e quello del signor Carlo. Per questo e altri motivi mi vedo costretto a prendere alcuni, seri, provvedimenti. Desidero che, da oggi, lei e la sua famiglia siate sotto protezione.» Poi mi rivolsi, con tono deciso, alla mia ispettrice. «Alessia, telefoni subito alla stazione dei carabinieri di Varese, in modo che si attivino per inviare subito un’auto di pattuglia sotto casa del signor Camponeschi. Questo almeno fino alla fine della settimana. Ci comporteremo allo stesso modo, inviando una pattuglia anche alla casa di Roma, quella dove abita la moglie del signor Carlo, che potrebbe rischiare di essere uno dei bersagli di questo o questi pazzi sanguinari.» Andrea mi guardò sorpreso e con gli occhi ancora gonfi di pianto chiese, palesemente preoccupato, con un filo di voce, di quale orrenda colpa poteva essersi macchiata la sua famiglia, per aver scatenato questa furia omicida. «Non conosco ancora la risposta, ma insieme alla mia squadra farò tutto il possibile per scoprirlo. Adesso si faccia accompagnare a Varese dai due agenti che la stanno aspettando all’uscita della Questura. Sua moglie verrà sicuramente avvertita del suo arrivo e dell’arrivo della pattuglia di scorta, dal mio solerte ispettore. La terrò informata di quando dovrà tornare a Ferrara per il riconoscimento dei suoi due familiari.» Il signor Camponeschi, lentamente, si alzò dalla sedia e ringraziando tutti, se ne andò mestamente dall’ufficio.

Ufficio Squadra Anticrimine (Fe)

Ore 16:30 mercoledì 14 maggio 2014

Nonostante la terribile mattinata trascorsa, i miei due aiutanti si stavano prodigando nel noioso compito di guardare gli innumerevoli video arrivati in ufficio. «54, sono ben 54 i video da guardare, accidenti! Non sono riuscito a pranzare anche se, oggi a me, la fame non è certo venuta, non dopo quello che ho visto stamattina,» confidò Nardi. «Taci e guarda bene il monitor, che non ti sfugga qualcosa!» Rimproverò stizzita, la Marini. «Abbiamo la mail con la lista delle consegne postali!» Informò. «Cominciamo a confrontarla con le immagini e speriamo di trovare un collegamento.» «Purtroppo, non sembra risultare nessuna consegna da Ferrara centrale a Quartesana, nel periodo di tempo che ci interessa. È molto strano ma è così,» replicò Nardi. Riguardai la lista e il monitor più volte, ma non emerse nulla di utile per la nostra indagine. Poi d’un tratto, un dubbio s’insinuò, prepotente. Se il sedicente postino fosse partito da Cona, avrebbe portato prima la minacciosa lettera ai carabinieri e poi fosse andato a Quartesana a compiere il delitto? Questa nuova ipotesi dava origine a due ben precisi ragionamenti. Il primo portava a pensare che il postino fosse veramente tale e il secondo che la Bolchi abbia visto veramente l’assassino. «Carabinieri stazione di Cona, buonasera,» rispose la voce maschile di un militare. «Buonasera, sono il vicequestore Ferrari, vorrei parlare con il comandante, grazie. «Subito, dottore.» «Buonasera, dottor Ferrari, qual è il problema?» Domandò il maresciallo Bergelli «Ricorderà, sicuramente, la terribile lettera di minacce di morte che avete trovato nella posta questo lunedì mattina.» «Certamente, cosa mi voleva chiedere in merito?» «Avete disponibili i filmati della telecamera, all’ingresso della caserma, di venerdì e sabato scorsi?» «Ovviamente sì, se lo ritiene necessario.» «Bene, avrei anche un’altra richiesta. Come mai la posta di venerdì e sabato è stata vista solo al lunedì mattina?» «Sono due domande a cui posso sicuramente rispondere, caro Ferrari. Abbiamo i filmati e li avremo in giornata. La posta, del fine settimana, viene sempre aperta il lunedì, in quanto le notizie importanti e urgenti arrivano per e-mail o per radio, mai per posta, quindi possono attendere l’apertura, come al solito, all’inizio della settimana. Adesso la saluto, perché ho ancora alcune cose da sistemare prima di sera. A presto dottor Ferrari.» «A risentirci, comandante Bergelli.» La telefonata s’interruppe un po’ troppo bruscamente per i miei gusti. Qualche richiesta doveva avergli dato fastidio, evidentemente. Mi alzai dolorante dalla sedia della scrivania. Ero stato troppo tempo seduto a fissare il monitor. La lunga seduta mi aveva intorpidito i muscoli delle gambe e della schiena. Finalmente chiusi la porta alle mie spalle, scesi le larghe scale, uscii dalla Questura e respirai a pieni polmoni l’aria frizzantina della sera, incamminandomi verso casa. Ferrara è splendida, romantica, femminile e come tutte le donne, ogni giorno più bella. Non mi stanco mai di guardarla, di viverla. La osservo sprigionare la sua storia, i suoi famosi personaggi che emergono prepotenti da ogni palazzo, da ogni vicolo, da ogni antica pietra che ogni sera calpesto mentre cammino lentamente verso casa, dopo il lavoro. Ricordo ancora la prima volta che ebbi l’occasione di transitarle accanto. Avevo solo 14 anni. Era la calda estate del 1980, una delle tante, belle mattine di quel luglio. Da Modena, la mia città natale, stavo andando, con amici dei miei genitori, al mare in Romagna. Ero seduto comodamente, nel retro di una vecchia Opel e quasi per caso, guardando fuori dal finestrino aperto, vidi le alte mura che cingevano la città estense. Senza preavviso, mi arrivò forte e chiara una premonizione. Sapevo, in cuor mio che si sarebbe avverata, e lo ribadii, con voce alta, senza esitare: «Io verrò a vivere in questa città, ne sono certo!» E così accadde. Alla prima occasione chiesi il trasferimento da Milano a Ferrara dove da cinque anni sono a capo della nuova Squadra Anticrimine. Conobbi Emma, mia moglie, 18 anni fa, una sera d’autunno del 1991. Un vicino aveva telefonato, preoccupato, alla polizia per una furiosa lite al n. 125 di via Belfiore a Milano. Con l’auto di servizio, io e altri due colleghi eravamo, casualmente, di pattuglia nei pressi dell’abitazione segnalata. Avvertiti dalla centrale del problema, ci dirigemmo all’indirizzo che ci era stato comunicato. Scendemmo dall’auto e ci dirigemmo alla bella villetta su due piani, da cui giungevano, attraverso la finestra semi aperta, forti rumori di mobili spostati e le urla di una donna. Iniziammo a correre verso la porta d’ingresso. Bussai violentemente, intimando un secco ordine, con voce potente: «Polizia, aprite la porta, presto.» Immediatamente i rumori e le urla s’interruppero, lasciando il posto a un soffocato grido d’aiuto femminile. Alla porta comparve una bellissima donna, visibilmente scossa e terrorizzata. Notai subito il grosso livido rossastro sulla guancia sinistra, molto evidente sulla pelle chiara di quel viso, contrastato e incorniciato da lunghi capelli neri, inevitabilmente in disordine. «Vi prego aiutatemi,» implorò con un filo di voce. «Non si preoccupi, signorina, siamo pronti a farlo!» Cercai di tranquillizzarla, sorreggendola da un braccio. L’uomo, presente nella stanza, con un atteggiamento arrogante, volle precisare: «Signora, prego, è una signora, io sono il marito.» Mentre lo diceva si accese una sigaretta e sprofondò nell’enorme poltrona che si trovava inspiegabilmente al centro della sala. Continuò ironico: «a cosa devo l’onore di una vostra visita?» Chiese, sarcasticamente, il giovane uomo, paonazzo in viso. «L’intervento è stato richiesto da un vicino, disturbato e spaventato dalle urla e dal rumore di mobilio rotto,» risposi guardandolo dritto negli occhi e continuai, precisando: «da quello che si può vedere, affermerei che la sua preoccupazione era del tutto fondata. Forse anche lei dovrebbe cominciare a preoccuparsi di questo disastro,» conclusi. Guardandomi un po’ intorno notai che nell’appartamento tutto era in disordine, come se fosse passato, nella stanza, un piccolo tornado. Cocci, pezzi di vetro e carte varie erano disseminati sul pavimento. Era evidente che quasi tutti i mobili erano stati spostati dalla loro sede naturale. Un piccolo tavolo era stato ribaltato. Il telefono senza fili, sul quale sicuramente era solito stare, aveva terminato la sua corsa nell’angolo opposto. La giovane donna non parlava, spaventata dal minaccioso atteggiamento del marito. Aveva la camicetta stropicciata e si teneva il fianco con la mano. Qualche volta storceva appena la bocca, in una lieve smorfia di dolore. Cercava di non farsi notare troppo dal compagno, nonostante soffrisse per le percosse ricevute, probabilmente temeva ritorsioni future dal nervoso coniuge. Iniziai, con un tono di voce piuttosto alto. «Sono tenuto, come lei forse saprà, a fare rapporto su quanto è accaduto. Vuole fare la sua dichiarazione, signor…?» «Piero Zocchi, ma non ho nulla da dichiarare, si è trattato di una semplice e innocua discussione famigliare, tutto qua!» Continuò a fumare seduto e irriverente come nulla fosse accaduto. Ripresi a fare domande, modificando il mio tono di voce a un livello più basso e più gentile. «Chiedo a lei, signora. Anche lei dichiara che si è trattato di una semplice discussione?» Mi guardò con occhi imploranti. «La prego, non so cosa dire, mi lasci in pace.» Chiaramente la donna era troppo impaurita e sotto shock, quindi decisi che non era il caso di insistere ulteriormente. Le porsi un biglietto da visita. «Sono l’ispettore capo Ferrari, questo è un numero di telefono che può chiamare quando vuole, per parlare con me. Adesso vada a riposare e si rilassi, vedrà che poi ricorderà meglio tutto quanto.» Mi avvicinai, in modo deciso, all’uomo che mi stava squadrando sospettoso e visibilmente contrariato. «Vada a dormire anche lei, meglio se in un letto diverso da quello di sua moglie, almeno per questa notte. Deve calmarsi e smaltire l’alcool che ha in corpo. Domani con calma, rimetterà tutto a posto e chiarirà con lei, sperando che la ragione abbia la meglio sulla rabbia, che ora la rende molto confuso.» «Per maggiore sicurezza, nel mio rapporto, farò presente quello che abbiamo sentito e visto arrivando in questa casa. Una piccola mossa preventiva, onde evitare il ripetersi di un’altra spiacevole brutta lite. A questo punto non mi resta che salutarvi e darvi la buonanotte.» Conclusi velocemente la visita e la bozza del mio rapporto, mi diressi all’uscita della villetta insieme ai miei colleghi, salimmo in auto commentando l’accaduto, fino alla centrale di polizia. Il giorno dopo, la donna del mio destino venne a cercarmi in ufficio. Sporse denuncia contro il marito, che la picchiava e maltrattava da parecchio tempo. Mi confidò inoltre che lui era il rampollo di un’importante, antica e blasonata famiglia ebrea di Milano. Per questo motivo, ogni mossa di lei, per liberarsi di quell’uomo sbagliato, sarebbe stata bloccata e interdetta alla nascita. Potere e denaro non si sposano, quasi mai, con il termine giustizia. Aveva comunque trovato il coraggio di farlo, anche per merito del mio atteggiamento protettivo nei suoi confronti. Aveva avuto fiducia e si sentiva pronta a lottare. Da quel momento cominciammo a frequentarci e non ci saremmo più allontanati.

Casa Ferrari

Ore 19:30 mercoledì 14 maggio 2014

Chiara, mia figlia, era assente, non era ancora tornata dall’allenamento di pallavolo, una disciplina sportiva che lei amava tantissimo e che praticava assiduamente, con ottimi risultati. L’impegno era pesante per una ragazzina di 17 anni. Poi c’era il grande segreto! Una sua ipotetica relazione sentimentale, la prima. Io non avrei dovuto saperlo. Sua madre me lo aveva confidato, facendomi promettere, sulla mia vita, di non rivelare mai a nessuno la sua delazione. «Sembra che un misterioso bel ragazzo frequenti la nostra bambina!» Ieri, con voce bassissima, quasi balbettando, Emma lo confessò, pentendosene mentre lo diceva. Che gusto sarebbe, potermi concedere, anche solo per poco tempo, d’indagare sulle scappatelle giovanili di Chiara! Il suono del campanello mi riportò alla realtà, la mia bimba era tornata, per me e per tutti i papà del mondo, sempre troppo tardi! Emma si diresse verso la porta d’ingresso, girò la maniglia, senza chiedere chi fosse e un ragazzo, alto, moro e con una leggera felpa di cotone, color rosso scuro, le si presentò di fronte.

«Buonasera, cercavo Chiara.» «Buonasera,» rispose Emma, sorpresa dall’inattesa visita serale. «No, non è ancora tornata, con chi ho il piacere?» «Sono Davide, un amico, speravo fosse già rincasata.» Per una strana coincidenza, nello stesso istante, una voce risuonò nell’atrio del palazzo: «eccomi, sono qui, Davide, aspettami dentro casa, arrivo subito.» Chiara entrò di corsa, attraversando il corridoio d’ingresso, gridando: «ciao mamma, corro a fare una doccia veloce, solo un attimo e torno.» La porta del bagno si chiuse fragorosamente alle sue spalle e dall’interno continuò a gridare: «faccio presto, lo giuro.» Emma allora accompagnò Davide nella sala da pranzo dove io, seduto al tavolo, aspettavo speranzoso e affamato la cena che, pensai desolato, avrebbe tardato non poco. «Accomodati, siediti, Davide...?» «Severi, è il mio cognome, se è questo che desidera sapere, signor...?» Il ragazzo rispose rapidamente e in modo un po’ indisponente, provocando un’impercettibile smorfia di dissenso nella mia bocca. Questo gesto non passò inosservato a chi ben mi conosceva e prevedeva la mia reazione a certe risposte. Infatti, Emma intervenne immediatamente: «Caro, devo andare a prendere la lampada per gli interrogatori?» Continuò sorridendo verso il ragazzo: «scusalo, per Leone è normale fare domande a chi si trova seduto a un tavolo davanti a lui.» Così, nello stesso tempo, rispose anche al giovane amico di Chiara, su quale fosse il mio nome. Il ragazzo abbozzò un sorriso, socchiudendo gli occhi per un attimo. «Nessun problema, so chi è lei. So che è un poliziotto, o meglio, è il vicequestore di Ferrara.» Ripresi a parlare, mantenendo comunque sempre un certo distacco. «Tralasciando le mie brutte abitudini, colpevole il tipo di lavoro, è normale che un genitore voglia sapere chi frequenta la figlia, non le pare?» «Sì, ha ragione,» rispose guardandomi dritto negli occhi, sfidando la mia autorità. «Ho 22 anni. Frequento l’università, qui a Ferrara, precisamente il corso di laurea magistrale del Dipartimento di Studi umanistici e sono assolutamente innocente!» Una risata collettiva chiuse, per il momento, l’argomento in modo gioviale, però si fece strada nella mia testa un nuovo dubbio. Era il suo ragazzo o solo un amico? Non mi sentivo chiaramente di domandare, dopo quello che era appena accaduto, per un semplice «signor...?» Per fortuna entrò nella stanza Chiara, a distogliermi, totalmente, da questa fastidiosa diatriba che rischiava di creare dissapori non voluti. La guardai entrare nella stanza. Gli occhi di papà la vedevano muoversi leggera, come una farfalla in un prato, in primavera. Era veramente bella. Lunghi capelli biondi, ovviamente tinti, altrimenti sarebbe nato subito il dubbio sulla paternità. Occhi azzurri, mio il merito. Lunghe e affusolate gambe, con caviglie sottili come la madre. Si era truccata e profumata, il che mi fece subito propendere per l’ipotesi fidanzato e mi chiesi se si usasse ancora quel termine, per indicare due che facevano coppia. Anticipando, solo per un attimo, il saluto di congedo dei due ragazzi verso di noi, volli riprendere a parlare con Davide. Volevo in realtà soddisfare la mia curiosità, tarata in modalità investigativa, che si sforzava di capire esattamente chi fosse e cosa rappresentasse per Chiara. Iniziai dandogli un’informazione. Una scusa, utile solamente per riprendere il discorso, interrotto dall’arrivo di mia figlia. «Anche mia moglie lavora all’Università di Ferrara, insegna proprio nel tuo Dipartimento, probabilmente non frequentate lo stesso corso, visto che non vi conoscete e sembra non vi siate mai visti prima.» Incalzai ancora, pur prevedendo la reazione di mia figlia. «Dove state andando di bello?» Chiara s’inalberò, come previsto: «L’interrogatorio finisce qui, non ti deve interessare, io e il mio amico siamo liberi di andare dove ci pare, fino a prova contraria siamo incensurati e in uno stato libero, vero?» «Ovviamente sì,» risposi molto irritato, non tollerando la sua arroganza nel rispondermi. «La mia era una semplice domanda, non te la saresti dovuta prendere tanto. Sei troppo nervosa. In fondo, è del tutto normale che m’interessi sapere dove e come intendi trascorrere il tuo tempo libero. Andate pure, tranquilli, siete liberi, non vi farò pedinare da una autopattuglia, passate una bella serata!» Chiara e Davide uscirono dalla sala senza salutarmi ed io, per tutta risposta, iniziai a gustare il piatto di pasta che Emma mi aveva appena portato, con l’intenzione non solo di servire la cena, ma anche di tapparmi la bocca. La porta d’ingresso dell’appartamento si chiuse in modo violento, alle spalle dei due ragazzi, visibilmente scocciati dalle mie parole. Cercai di consolarmi, pensando che la maggior parte dei genitori che conoscevo, in fondo, avevano le mie stesse ansie.


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