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Trascrizione

Ascoltiamo e leggiamo insieme l'intero quarto capitolo del mio giallo ambientato a Ferrara.

"La nemesi dell'Aquila" è il primo libro della trilogia: "FERRARA e l'ABISSO della COLPA"

La misteriosa Ferrara si tinge di giallo il BLOG di Daniele Meschiari.


CAPITOLO QUATTRO

Ufficio Squadra Anticrimine (Fe)

Ore 10:40 sabato 17 maggio 2014

Seduto alla mia scrivania, svolgevo compiti di ordinaria amministrazione da più di un’ora. Stavo aspettando l’esperto che Alessia aveva selezionato in una cerchia di cinque ottimi candidati. Mi fidavo ciecamente del suo giudizio. Il professor Lombardi aveva accettato l’incontro e l’invito in ufficio. Fiducioso, pensavo che con questo esperto avremmo potuto confermare le utili indicazioni di Emma e della Marini in merito al linguaggio del killer e alla discendenza del Camponeschi. Insieme avremmo inoltre analizzato i documenti trovati in casa Maggi. Una voce roca, importante, ruppe il silenzio della stanza e le mie considerazioni: «Sono in anticipo, mi dovete perdonare, ma sono riuscito a liberarmi in fretta.» «Meno male, meglio così. Il professor Lombardi, immagino, prego si accomodi,» risposi prontamente. «Anche Samuele, ci sta a fagiolo, mi può chiamare così, d’ora in avanti. Le è sicuramente permesso. Il dottor Ferrari, vero? Sto leggendo la targhetta sulla sua scrivania, spero di non aver fatto una gaffe,» esordì simpaticamente il mio ospite. «No, tutto bene e sperando di passare molte ore insieme, da questo momento vale anche per lei la regola “solo il nome”. “Dottor Ferrari”, dopo un po’, diventa pesante da digerire, quindi per lei sono solo Leone. In questo modo saltiamo tutti i convenevoli e ci mettiamo subito al lavoro!» La prima impressione era stata ottima. Ero molto favorevole a lavorare con questo empatico professore universitario. Ero pronto a scommettere che anche i suoi allievi avessero un ottimo rapporto con lui. Ora la mia attenzione si sarebbe spostata. Non volevo più essere attratto dalla sua cordialità, bensì dalla sua capacità professionale. Iniziai esponendogli le due indicazioni storiche avute dalle mie due consulenti occasionali. Gli sottoposi quindi la relazione di Alessia sul linguaggio e la ricerca di mia moglie su papa Paolo IV. Avuto il benestare e la conferma da un esperto su queste due indicazioni, gli sottoposi il documento composto di due fogli trovato a casa di Maggi. La sua reazione, alla vista dell’antico scritto e alla sua lettura, fu di enorme stupore, talmente grande da non riuscire a trattenere un moto di contentezza, seguito da una leggera imprecazione che emise quasi senza volerlo. «Mi deve scusare Leone, ma non pensavo di trovarmi di fronte a una rarità simile. Sapevo bene della visita di Nostradamus a Ferrara, sapevo della predizione fatta ad Alfonso II per la nascita di un figlio che non voleva arrivare, sapevo anche delle cure richieste al profeta, inutili e senza risultati.» «Tutto per evitare che la Chiesa si prendesse il ducato, ma certo non mi aspettavo una prova documentata così importante. Si tratta sicuramente di una copia dell’originale del trattato tra le parti. Però questa copia garantisce che da qualche parte potremmo trovare tutti e tre i fogli timbrati e firmati e soddisfare così le nostre curiosità: su cosa ci fosse scritto nel foglio mancante e cosa avesse consegnato Alfonso II d’Este a Nostradamus.» Sempre più infervorato, continuò a spiegarci i vari passaggi che avremmo dovuto compiere per ritrovare il foglio scomparso. «Questo genere di documenti, di solito, sono reperibili presso lo studio delle fonti documentarie sedimentate dell’archivio segreto estense. Sono conservate presso l’Archivio di Stato di Modena. Qualche riferimento potrebbe essere anche presente presso la biblioteca estense universitaria. «Data la quantità elevata di questo tipo di documenti, dovremmo comunque restringere il campo d’indagine e tentare di circoscriverlo, privilegiando l’arco temporale compreso tra il 1530 e il 1570.» «Oppure, molto più semplicemente catturare il Maggi e fargli dire tutto quello che sa,» replicai ironico. «In previsione del nostro incontro, aiutato dalle informazioni gentilmente ricevute dall’ispettrice Marini, mi sono documentato su quello che, probabilmente, è stato il suo famoso antenato,» riprese a raccontare il professore. Poi, lentamente, mi porse un foglio, scritto di suo pugno. Una vecchia e sana abitudine, ormai considerata obsoleta dai più. Iniziai a leggere il testo in bella calligrafia del professore, in modo che sentisse anche Alessia. «Vincenzo Maggi ottenne la cattedra di filosofia a Padova nel 1533. Fu membro dal 1540 dell’Accademia degli Infiammati. Frequentò insigni estimatori di Erasmo da Rotterdam, che venne accusato di essere un eretico e un fomentatore della Riforma protestante, dal cardinale Aleandro. Riuscì poi a incontrare Erasmo in Germania. Frequentò diversi circoli culturali, alcuni dei quali erano molto più simili a vere sette che a raduni letterari. Nel 1543 Maggi lasciò Padova per entrare al servizio del duca Ercole II d’Este come precettore del figlio Alfonso e come insegnante di filosofia all’Università di Ferrara.» Alzai il capo verso il professore, alla fine dello scritto. Lombardi iniziò a spiegare dal punto in cui mi ero interrotto: «A lui si devono diversi trattati e scritture amanuensi, nel periodo che abbiamo preso in esame. La sua lunga appartenenza a sette segrete e a presunte congreghe di natura eretica potrebbe portare a pensare che questi delitti possano avere una antica matrice di origine inquisitoria. Potrebbe essere realistico pensare di essere di fronte allo stesso modus operandi dei feroci inquisitori del XVI secolo. Infatti, documentandomi sulle informazioni che lei aveva avuto da sua moglie, risulta che Camponeschi era il cognome della madre di Paolo IV e a lui si devono condanne esemplari, proprio agli eretici.» Avevo preparato, sulla scrivania, la cartella rilasciata dalla scientifica sui due omicidi, desiderando proprio discuterne con Lombardi. Gliela porsi e subito l’aprì, incuriosito, con un rapido gesto della mano. Lesse per qualche decina di secondi. Inarcò le folte sopracciglia, sorridendo compiaciuto di poter dimostrare con i fatti le sue teorie. «Vede, avevo ragione, il nostro assassino prende esempio dal modo in cui venivano uccisi, per stregoneria, uomini e donne. Sulla prima vittima, leggendo quello che si vede scritto qui, sono state usate due tecniche di tortura piuttosto comuni in quel periodo nefasto. “La strappata” ed “Il rogo”. La prima consisteva nel legare l’accusato a una fune e issarlo su una sorta di carrucola. L’esecutore faceva il resto tirando e lasciando di colpo la corda e slogando, così, le articolazioni. La seconda, riservata in modo particolare agli eretici, era, di solito, una manifestazione pubblica, e il condannato veniva bruciato, dopo giorni di digiuno e prediche. Oppure, poteva essere un’esecuzione privata. Il malcapitato veniva legato e torturato, vedi l’asportazione dei testicoli come nel nostro caso. Quindi veniva versato l’olio bollente o il catrame. La seconda vittima, il figlio Carlo, da quello che leggo, ha subito invece quello che veniva chiamato “L’impalamento”, una delle più rivoltanti e vergognose torture concepite dalla mente umana. Veniva attuata per mezzo di un palo aguzzo, inserito nel retto della presunta strega, forzato a passare lungo il corpo, per fuoriuscire dalla testa o dalla gola. Come vede, concludendo, non ci possono essere dubbi, si tratta di una copia e incolla di pratiche usate dall’inquisizione.» Ero rimasto piacevolmente sorpreso, direi meravigliato, dalla capacità del Lombardi di spiegare così chiaramente, in pochissimo tempo, il senso logico di una vicenda così complessa come questa. «Spero di aver chiarito i miei pensieri su questa vicenda delittuosa. Per il momento è tutto quello che posso dirvi, riguardo a ciò. Mi riservo, ovviamente, ben altre analisi e considerazioni dopo aver trovato il documento originale del Maggi.» Arrivati a quel punto, decisi che era ora di prendere commiato da Lombardi. Mi scusai per averlo disturbato nel weekend e presi accordi per sentirci, telefonicamente, il lunedì successivo. Ci saremmo accordati per andare insieme a Modena, all’Archivio di Stato, con in mano il mandato del P.M., per cercare e trovare il famoso scritto. L’avrei informato in anticipo di quando, e a che ora, fosse stata pronta l’autorizzazione legale per accedere a quei documenti segreti.

Via Beatrice II d’Este, centro di Ferrara Ore 23:30 domenica 18 maggio 2014

«Vieni, Toby, non ti chiamo più… su dai, non farmelo ripetere…corri dalla mamma, bel cagnolino. Ecco bravo, ora ti aggancio il tuo collare e facciamo due passi insieme, in questa splendida serata.» Le stesse parole, gli stessi complimenti, lo stesso percorso da cinque anni. Ogni sera, quasi allo stesso orario, appena conclusi i programmi televisivi preferiti, con qualsiasi tempo, l’immancabile passeggiata con il piccolo amico, fino al convento delle Benedettine, in via Gambone. La signora Lidia era metodica, precisa, gentile. Viveva sola, con il suo Toby, non si era mai sposata. Quando era più giovane non aveva trovato il suo principe azzurro e ora era pigra, troppo pigra per cercarlo. Dalla nascita, nel 1960, risiedeva nella splendida casa, da sempre di proprietà della sua famiglia, in via Beatrice II d’Este. Una storica antica casa, abitata dagli Augeri dai primi del 1500. Il padre di Lidia, ingegnere, aveva trascorso i suoi ultimi anni in un letto, all’ospedale di Padova. Affetto da una grave forma di diabete, alla fine della lunga malattia se n’era andato, lasciando in eredità, alla sua unica figlia, l’ingente patrimonio monetario e la splendida magione con giardino interno secolare, in pieno centro a Ferrara. Della bella e giovane madre di Lidia e della sua scomparsa, avvenuta ormai quarant’anni fa, in città, si era fatto un gran parlare, condito con le più incredibili illazioni. Qualcuno sosteneva fosse scappata con un bel capitano dei carabinieri, che frequentava la casa Augeri, in quel periodo. A sostegno di questa teoria, il fatto che, nello stesso periodo, il militare fosse stato trasferito, chissà dove, in una sperduta città del Sud. L’altra teoria più diffusa, mai suffragata da prove, era quella che sosteneva l’uccisione della moglie, per gelosia, dall’ingegnere stesso che l’avrebbe sorpresa con uno dei suoi tanti, presunti amanti. A metà degli anni Settanta, i giornali della città e anche quelli nazionali si gonfiarono di queste tendenziose notizie di cronaca rosa e forse nera. Alla fine, le indagini, promosse da tutto questo gran parlare, risultarono inconcludenti e non portarono a nessuna soluzione. La signora Augeri non fu mai più ritrovata e pian piano la storia divenne priva d’interesse per i media, fino a spegnersi definitivamente. Lidia aveva solo quattordici anni quando accadeva tutto questo. Non avrebbe mai potuto dimenticare il volto della madre e i terribili sospetti che l’avevano accompagnata per tutta l’infanzia. La morte del padre l’aveva toccata marginalmente. Forse era stata più una liberazione, come se la malattia, che aveva colpito duramente il genitore, fosse stata una giusta punizione divina. I soliti pensieri, durante la solita rilassante passeggiata serale. Percorreva, come sempre, facendosi trascinare dai ricordi e dal suo unico amore, il piccolo e noioso Toby, lo stretto marciapiede, che separa la strada ciottolata dal muro esterno delle antiche case di via Beatrice, fino all’angolo con la via del monastero. Quindi, come al solito, lasciava lo stretto camminamento in cemento, voltava a sinistra lungo il muro e iniziava a camminare sulle vecchie pietre che ancora lastricano la via. Aveva sempre provato un piccolo, ma significante piacere, nel poter calpestare quei ciottoli secolari che avevano una storia così importante. Quasi come fosse un gioco, a volte, quando era un po’ più giovane, si era divertita a saltellare tra un sasso e l’altro, fino a raggiungere il convento. Intanto, il cagnolino si era posizionato per le sue necessità fisiologiche, vicino alla ruota di un’auto all’inizio della stradina, che non avrebbe dovuto essere parcheggiata lì. Faceva leggermente caldo e il profumo dei fiori nei giardini interni riempiva l’aria. Tutte le finestre erano buie tranne una, da cui traspariva la luce azzurrognola di un televisore o di un computer acceso. Arrivata all’arco in pietra, sormontato da una croce in ferro battuto, si rese improvvisamente conto che i suoi passi sul selciato non erano l’unico rumore che riempiva la notte. Sentì distintamente, davanti a lei, il debole suono sordo di un ciottolo calpestato e spostato, il rumore che fa quando viene rimosso dalla sua sede naturale. Sembrava provenire dall’angolo cieco, formato dalle colonne dell’ingresso ad arco e il muretto del monastero adiacente. Qualcuno avrebbe potuto nascondersi nell’ombra e quel piccolo rumore, forse, l’aveva tradito. Lidia aspirò profondamente, il cuore le batteva forte, la paura di un’aggressione si faceva strada nella sua mente. Avrebbe voluto gridare: “Chi è là... aiuto, cosa volete?”, ma quelle poche parole s’impastavano con la forte salivazione, arricchita dalla tensione e dalla paura. Anche il piccolo cane cominciò a guaire nervosamente, verso il punto nel buio che Lidia continuava a fissare. Il panico prese il sopravvento, quando una lunga e grande ombra si stagliò sulla strada e subito dopo, da quell’angolo nascosto, si materializzò un’oscura figura, che ormai completamente visibile, attaccò velocemente e silenziosamente la donna impietrita dal terrore. Il misterioso aggressore si portò rapidamente alle sue spalle e le avvolse il collo con un laccio di pelle e cominciò a soffocarla. Non fece nessuna resistenza, la morte sopraggiunse lenta e silenziosa. La cosa che fissò nella mente, prima dell’ultimo respiro, fu la figura del santo, incavato sopra l’arco di pietra dell’antico ingresso al convento benedettino.

Monastero S. Antonio in Polesine (Fe) Ore 07:40 lunedì 19 maggio 2014

«Una splendida giornata di primavera!» Esordì felice, la monaca. «Un radioso mattino,» le fece eco la giovane suor Teresa mentre si dirigeva verso il cancello del monastero, che all’esterno si apriva su vicolo Gambone. All’interno invece racchiudeva il grazioso giardino, con il prato all’inglese, le siepi regolari, il vecchio ciliegio giapponese completamente fiorito di rosa pesca e al centro il secolare pozzetto rinascimentale, arricchito di preziosi decori. Arrivata al cancello, introdusse la chiave per aprirlo, come ogni mattina alla stessa ora, ma lo trovò inspiegabilmente già aperto e notò che la serratura era manomessa in modo grave. «Madre Cecilia, presto, venga a vedere... il cancello è stato aperto,» gridò la monaca. «Cosa stai dicendo, è impossibile! Chi mai potrebbe fare una cosa simile?» Replicò la monaca affrettandosi verso l’ingresso del giardino. Madre Cecilia arrivò al cancello e, guardando da vicino il meccanismo indicato dal dito indice di suor Teresa, confermò stupita le parole della giovane novizia. «È vero, l’hanno proprio scassinata.» Poi si rese conto di cosa avrebbe potuto significare quel chiavistello rotto e visibilmente angosciata s’impaurì. «Madonnina santa, i ladri. Presto, andiamo a vedere se stanotte hanno rubato qualcosa all’interno. Chiama subito le altre sorelle e controlliamo tutte le stanze, vediamo se manca qualcosa. Telefona anche alla polizia.. è meglio.» Le monache erano state tutte allertate e come tante formichine, quando giravano intorno a un pezzo di pane, si muovevano vorticosamente, in squadra, cercando di ricordare tutto quello che c’era in una stanza del convento e adesso magari non c’era più. Improvvisamente, due suore vicino al pozzo, quasi al centro del giardino, davanti al ciliegio, richiamarono l’attenzione delle altre a loro più vicine. Una di queste teneva in mano, incredula, un pezzo di carta e lo stava leggendo sottovoce, da sola. Poi alzò la voce e cominciò:

«Per la terza volta giongi al godimento della tortura, per chi non haveria voluto confessar vero strazio facto disonestamente a tutti i modi nei tempi sui. Et qual mater tal Augeri che intendendo le cose e sapendo quelle essere bugiarde, haveria finanzo quel che meritava.»

Un brivido freddo percorse la schiena della suora mentre indicava il luogo del ritrovamento del biglietto. Era la tavola di legno massiccio, rotonda, che chiudeva l’apertura del pozzo. La copertura appariva rigirata. L’anello in ferro battuto, che serviva come presa per togliere il coperchio alla cisterna, era scomparso. Si trovava, evidentemente, rivolto verso il fondo del pozzo che, anche se inutilizzato, era ancora funzionante e conteneva acqua di sorgente, gelida e profonda. Tutti i presenti, a quel punto, avevano paura di scoprire cosa si celasse dall’altra parte della copertura di legno. «Aspettiamo la polizia,» esortò, una suora nel gruppo, la prima a parlare. «Nessuno tocchi niente,» le fece eco madre Cecilia, che intanto era tornata nel piccolo cortile, richiamata dal suono delle parole, lette ad alta voce, nel terribile messaggio. Un’autopattuglia della polizia si arrestò davanti al cancello del giardino del convento, bloccando l’ingresso della stretta via. La monaca si diresse immediatamente incontro ai due poliziotti che erano scesi dalla vettura. Vennero subito informati, con poche ma chiare parole, del ritrovamento e del testo del foglio, rinvenuto sul coperchio del pozzo e di come fosse stato rivoltato. «Se quello che penso è vero, dobbiamo temere un altro omicidio. Meglio avvertire subito l’Anticrimine. Dubito molto si tratti di un furto,» sostenne con assoluta determinazione l’agente che sembrava il più anziano, rivolgendosi al collega. Questi rispose prontamente, dirigendosi verso l’auto di pattuglia. Aprì la portiera, accese la radio e chiamò la centrale, richiedendo l’intervento immediato della squadra speciale Anticrimine e spiegandone il motivo. Come da procedura d’urgenza, valutando il poco spazio disponibile, spostò subito la volante in un luogo dove non fosse d’intralcio all’arrivo di altre auto pattuglie e/o dei mezzi di soccorso. Infine, diligentemente, prese dal baule il nastro giallo che, dopo l’arrivo della squadra, avrebbe dovuto delimitare la zona del crimine. Sempre di corsa si spostò all’inizio della via che s’incrociava con via Beatrice II d’Este, per chiuderla con il nastro dopo il passaggio dell’auto del vicequestore e delle auto di servizio. Come da procedura, avrebbe atteso, in loco, l’arrivo delle ambulanze e della scientifica per chiudere definitivamente vicolo Gambone. «Leone, presto, ti vogliono al telefono urgentemente, forse un altro omicidio!» La voce agitata di mia moglie risuonò minacciosa e inopportuna, fuori dalla porta del bagno. «Arrivo subito,» risposi, notando, però, come le brutte notizie arrivavano sempre di domenica e sempre quando eri in bagno a fare i cavoli tuoi! Il “momento” bagno è il tempo considerato da me e credo da molti, come l’unico in cui i tuoi pensieri e le tue fantasie sono liberi di esprimersi, senza che qualcuno si intrometta e ti rechi disturbo come in questo caso! Cominciai a vestirmi, rapidamente, lasciando perdere alcune azioni quotidiane che normalmente vanno fatte, quando il tempo ti lascia lo spazio per farle. La fretta è spesso deleteria quando si tratta di comprendere e attuare decisioni importanti e conduce spesso a commettere errori grossolani. Uscii dal bagno, Emma mi aspettava, con i calzoni e la camicia in una mano e la giacca nell’altra. Dopo tanti anni, vissuti con un poliziotto, aveva acquisito un’assoluta padronanza nella gestione delle situazioni di emergenza. Il cellulare, in vivavoce, continuava a spandere per la casa la voce rauca di Nardi. «Dottore, sto arrivando con l’auto, due minuti e sono sotto casa sua.» «Bene sto scendendo,» annunciai, gridando la mia risposta sullo smartphone ancora sul tavolo. Lo raccolsi e lo infilai acceso nella tasca della giacca, un veloce bacio sulla guancia di mia moglie e mi allontanai definitivamente da una tranquilla domenica in famiglia. Venti minuti, dopo che il giovane agente chiamò la centrale operativa, furono sufficienti perché l’auto di servizio, con me a bordo, giungesse davanti all’ingresso dell’antico monastero benedettino. Insieme all’ispettore capo Nardi e ai due agenti Chiusi e Salvatori, mi diressi verso il pozzetto dove ci aspettava l’anziano capo pattuglia che era intervenuto, in prima battuta, alla chiamata fatta dalle suore del convento. La madre superiora, intanto, aveva fatto giustamente allontanare le consorelle dietro il nastro che delimita la possibile zona incriminata. Ero molto nervoso e teso. Ero certo che avremmo trovato di sicuro un altro cadavere in quella cisterna. Il foglio ritrovato dalla novizia era stato sicuramente scritto dalla stessa mano coinvolta nel caso Camponeschi. Bisognava comunque verificarlo, ma era purtroppo ovvio che si trattasse del medesimo colpevole. Tutti, me compreso, si erano già infilati i guanti e le soprascarpe per non inquinare le eventuali prove per la scientifica. Provammo a sollevare a otto mani il coperchio, ma ci rendemmo subito conto che esso era tenuto serrato verso il basso da un peso notevole. Quindi per alzarlo e finalmente avere la certezza di cosa vi fosse appeso, infilammo con forza, sotto il coperchio, una sbarra di acciaio, tipo piede di porco, procurata da Salvatori, che la custodiva nel bagagliaio dell’auto di servizio, perché come diceva sempre lui: “poteva sempre servire” e anche questa volta aveva avuto ragione! Iniziammo a fare leva con l’altra estremità della sbarra, usando il robusto bordo di pietra del pozzo come fulcro. Riuscimmo così a creare un pertugio, attraverso il quale, con la luce della pila elettrica, illuminare l’interno. Si notava, chiaramente, una corda tesa che scendeva nella cavità, fissata con un grosso nodo, all’anello della copertura. Anche per salvaguardare il bordo del secolare pozzo, decisi che sarebbe stato opportuno usare un paranco, per sollevare il coperchio con annessa, presunta, spiacevole sorpresa. «Nardi, per piacere, cerchi una ditta, qualcuno che possa fare questo tipo di lavoro, mentre io interrogo le suore presenti per sapere cosa hanno visto e sentito,» mi rivolsi così al mio ispettore capo, poi, senza aspettare risposta, mi diressi verso quella che sembrava essere la madre badessa. «Buongiorno, sorella, posso farle qualche domanda? Sono il dottor Ferrari, il responsabile della squadra Anticrimine. Qualcuna delle sue consorelle ha informazioni utili per le indagini?» «Mi spiace, ma sembra proprio che stanotte nessuna di loro abbia udito rumori o altro,» rispose madre Cecilia, con il disappunto di non poter essere d’aiuto. Un forte grido, seguito da un’evocazione di aiuto divino, interruppe le parole della madre superiora. Suor Teresa, con le mani giunte, dall’angolo più a sud del giardino, continuava a gridare e invocare tutti i santi del Paradiso fissando qualcosa in terra. Mi precipitai verso di lei, seguito da molte altre suore presenti e dalla stessa badessa. Nell’angolo cieco del muretto interno al cortile c’era il corpo inerme di un piccolo cane. «Toby, oh, povero Toby!» Madre Cecilia, riconobbe il cane della signora Lidia. La bestiola era stata soffocata usando il suo stesso guinzaglio. «Conosce il proprietario di questo povero animale?» Chiesi alla sorella che ne aveva pronunciato il nome. «Certamente, è Toby, il cane della signora Augeri. Viene spesso a trovarci, per godere insieme a noi della vista del nostro ciliegio in fiore e a complimentarsi per il nostro bel giardino, soprattutto di come ne abbiamo cura.» Adesso sapevo, quasi con certezza, chi potesse essere la persona appesa al coperchio del pozzetto. Era già trascorsa mezz’ora da quando Nardi era riuscito a trovare la ditta che avrebbe mandato i suoi dipendenti per sollevare la macabra copertura di legno. Guardavo nervosamente l’ora, digitalizzata nel cellulare. Già da molti anni avevo rinunciato a portare l’orologio al polso. Molto meno elegante, ma molto più comodo leggere il tempo che passava sullo smartphone. Mentre facevo questa banale considerazione, sopraggiunsero finalmente tre operai, con un robusto treppiedi già montato e sormontato da una grossa carrucola a scatto. Un grosso cavo d’acciaio fu assicurato e incrociato sopra e sotto la tavola di legno, in modo da avvolgerla saldamente e quindi assicurato in modo appropriato a un gancio, a cui venne fissato un altro cavo fatto poi scorrere nella carrucola. All’altra estremità i tre forti operai cominciarono a sollevare la copertura, utilizzando come aiuto il meccanismo della carrucola che fermava a ogni scatto il possibile ritorno verso il fondo del carico sospeso. Lentamente, ma inesorabilmente, un corpo umano fradicio d’acqua cominciò a risalire dal pozzo, rivelando il suo genere femminile. La donna penzolava dalla corda fissata al grosso anello di ferro, legata per le caviglie. Appena si riuscì a far emergere oltre la metà del corpo, i tre operai aiutati anche da un paio d’agenti iniziarono a estrarre dal pozzo la povera vittima, afferrando con le mani la grossa corda che tratteneva il cadavere, trascinandolo fuori. Alla fine dello sforzo, il corpo venne adagiato sull’erba, vicino al pozzo. La signora Augeri era completamente nuda e con le mani legate, come se il suo carnefice avesse avuto paura che la donna potesse mai liberarsi da quella posizione, immersa com’era nell’acqua. Dalla bocca, aperta, s’intravedeva un pezzo di pietra di colore nero, forse introdotta per evitare che urlasse. Una sottile striscia di liquido viscido e chiaro, simile a un sapone liquido, cominciava a uscire dalle narici dilatate della vittima. Gli occhi aperti e sbarrati mi fecero propendere verso la terribile ipotesi che Lidia fosse ancora viva quando fu fatta scendere nell’acqua gelida e che fosse morta affogata. Un altro duro lavoro, per noi e per la scientifica. Tre delitti atroci, in pochi giorni, nella tranquilla città di Ferrara erano, fino a oggi, impensabili. Dopo l’incontro con Lombardi, i pochi dubbi che mi erano rimasti su questi delitti, in particolare se fossero o meno rituali, erano completamente scomparsi. Improvvisamente, l’ispettore Nardi, come preso da un raptus irrefrenabile, decise di esprimere a voce alta e forte il suo pensiero. «Un maledetto serial killer, ecco chi ci è capitato tra capo e collo, un pazzo che adora uccidere con metodi brutali, un bastardo psicopatico.» «Forse più di uno,» replicai «forse più di uno, caro Nardi!» Insistetti convinto. «Un uomo solo, come abbiamo visto, non avrebbe potuto fare tutto questo. Negli ultimi due delitti, così come li vediamo nella loro dinamica, erano necessarie più persone per attuarli.» «Ora è ufficiale, abbiamo tre crimini legati tra loro dallo stesso filo di crudeltà. I nostri misteriosi assassini sono un gruppo di fanatici.» Asserii, sicuro e preoccupato. Composi il numero della sezione scientifica della polizia per richiedere gli esperti sul luogo del delitto. Ero sicuro che, anche in questa scena del crimine, non si sarebbero trovate prove utili a identificare questi mostri, ma era necessario provare, comunque, a cercarle. Salii in auto. Al volante c’era l’agente Chiusi che mi stava aspettando. «Dove andiamo, dottore?» «Portami a casa. Ho bisogno di concentrarmi e di pensare alla mia famiglia.»

Ufficio Squadra Anticrimine (Fe)

Ore 11:00 lunedì 19 maggio 2014

Alessia, appena entrato in ufficio, mi aveva portato la cartella con i risultati della scientifica dell’omicidio di Carlo Camponeschi, chiedendomi più volte di consultarla, ma io non avevo toccato quel fascicolo per tutta la mattina. Stavo fingendo che quelle maledette cartelle riguardanti i primi due delitti e che occupavano spazio sulla mia scrivania, non fossero mai esistite e che quindi non fosse mai accaduto nulla di tutto quell’orrore che io e la mia squadra stavamo vivendo. Purtroppo, erano lì, presenti. Presto si sarebbero aggiunte anche quelle per il terzo omicidio. Mi stavo chiedendo se esistesse un collegamento storico del cognome Augeri con quello del Camponeschi. Questa riflessione mi fece ricordare l’appuntamento telefonico con il mio esperto rinascimentale. «Pronto? Professor Lombardi, sono Ferrari.» «Ha già dimenticato, vero? Per lei solo Samuele,» rispose. «Mi dispiace, per ora, non riesco proprio a chiamarla solo per nome, mi conceda almeno prof, come vi chiamavamo a scuola.» «Va bene, concesso, che notizie mi porta?» «Pessime, prof, pessime. Abbiamo un altro terribile omicidio, poi con calma le spiegherò i particolari, quando ci vedremo. Adesso però, ho una domanda veloce per lei. Muoio dalla curiosità di saperlo. Il cognome Augeri le ricorda qualcosa?» «Augeri… Augeri… credo di ricordare che abbia, anche questo cognome, un legame con qualche papa. Sarò più preciso dopo un’attenta ricerca. Piuttosto, quando ha detto che ci vedremo?» Chiese Lombardi. «Il P.M. mi ha fatto sapere che il mandato sarà pronto domani mattina verso le 09:00, quindi se per lei va bene fisserei un incontro qui da me, alle 10:00.» «Le farò sapere oggi pomeriggio, intanto la saluto, Leone. Ha visto, mi sono ricordato!» «A presto, prof,» risposi, sorridendo tra me e me per il termine scolaresco. Aprii finalmente, a malincuore, con un rapido movimento, la cartella di Carlo. Sapevo già cosa avrei trovato. Una descrizione della sua morte, più o meno simile a quella del padre, con un finale non meno orribile, ma decisamente diverso. L’impalare gente non era una pratica molto comune nella nostra società civile e nei secoli recenti. Andai comunque a leggere direttamente il rapporto finale e le conclusioni della dottoressa Serena Agostani. Il referto autoptico e il soprascritto rapporto evidenziavano che il soggetto ignoto aveva inizialmente sopraffatto la vittima, narcotizzando con il cloroformio. I rilievi effettuati e il referto legale inducevano a presumere che il momento dell’avvenuta aggressione potesse risalire a nove o undici ore prima del ritrovamento del cadavere. Anche qui, l’asportazione di entrambi i testicoli (non ritrovati) con arma da taglio seghettata (non trovata). Confermata la morte per strangolamento con laccio (non ritrovato), avvenuta circa dieci ore prima del rinvenimento. Successivamente, la vittima era stata infilzata, utilizzando le aste appuntite e congiunte di due letti, partendo dallo sfintere, attraversando l’intestino, il cuore e l’esofago, uscendo dalla bocca. La solita mancanza totale di tracce su tutta la scena del crimine e di reperti concludeva il macabro rapporto. Preso dalla lettura non mi accorsi che Alessia stava aspettando, pazientemente, di consegnarmi una vistosa busta gialla per documenti. «Sono le foto del delitto, di questa mattina,» mi informò, anticipandomi ancora una volta. Mi avvicinai, presi la busta che la Marini mi porgeva ed estrassi il pacchetto di foto. Le sfogliai e ne scelsi una da collocare sulla lavagna magnetica dove si trovavano le altre foto dei delitti precedenti. La posizionai all’estrema destra della lavagna con una piccola calamita di colore giallo. Lo giudicai un gesto scaramantico, quasi a prevenire ulteriori guai, non lasciando spazio per altre fotografie. Rimasi per parecchio tempo a guardare la lavagna, con quelle linee che si intersecavano tra le fotografie, in più punti. Alla fine, la stessa solita domanda, ancora senza risposta: Perché? Fondamentale era scoprire quale fosse il comune denominatore dei tre delitti.

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