La misteriosa Ferrara si tinge di giallo il BLOG di Daniele Meschiari.
CAPITOLO OTTO
Piazzale antistante il Duomo di Ferrara
Ore 19:03 mercoledì 28 maggio 2014
Lombardi si presentò puntuale, come sempre, ma visibilmente accaldato. La giornata era stata particolarmente afosa. Certo non ci si poteva stupire della temperatura, essendo arrivati ormai alla fine di uno splendido maggio. Il sudore imperlava la fronte del mio amico, poi guardandomi con aria truce sbottò, in modo irriverente, nei confronti del comune di Ferrara o di chi per loro. «Avrei fatto il parcheggio per le auto un po’ più lontano dal centro storico, accidenti a loro, cosa avrò percorso, due chilometri?» Chiese, decisamente nervoso per il gran caldo. «Esagerato!» Dissi sorridendo. «Il problema non sono le distanze, ma la pancia caro prof, poi, addirittura la giacca, in una giornata come questa! Trascinare un trolley pesantissimo, con questa temperatura africana, per forza sei tutto sudato. Coraggio, continuai, ho prenotato in un albergo qua vicino, nel cuore della città. Ancora pochi passi e potrai fare una bella doccia rinfrescante e cambiarti per la cena. Ti aspetterò nella hall e poi andremo a mangiare e a parlare tranquilli in un ottimo ristorante.» «Grazie Leo, ho tante cose importanti da dirti, questa sera a tavola. Dovremo lavorare parecchio, nei prossimi giorni.» Questa promessa non mi rendeva così felice, mentre aspettavo Samuele, nell’ampia sala dell’hotel. L’antica porta, che dava alla sala del ristorante, si aprì dolcemente. Un solerte cameriere ci invitò a entrare, accogliendo con un cortese: «Benvenuti, prego, accomodatevi,» continuando con la rituale domanda: «Avete prenotato? Se sì a che nome, per cortesia?» «Ferrari, tavolo per due, grazie.» «Sì, la stavamo aspettando,» confermò prontamente. L’uomo gentilmente ci fece accomodare in un tavolo già preparato, in una saletta appartata, che avevo espressamente richiesto, per poter parlare in libertà. Una volta seduti comodamente, apprezzai e valutai positivamente l’elegante mise en place, la bellezza del locale e la professionalità del personale. Non riuscimmo a iniziare a parlare, di quello che ci interessava perché, come un fulmine, arrivò una bella signora, elegantemente vestita, con il menù. Sapevo già cosa ordinare, non era la prima volta che andavo in quel locale. Consigliai, senza paura di sbagliare, al mio ospite, quali fossero i piatti migliori dello chef e i miei preferiti. Li ordinammo, congedammo il maître e finalmente esauriti convenevoli e congetture varie, iniziammo a parlare del nostro caso. Per prima cosa, iniziai scusandomi con Samuele per lo spavento che aveva subito e per i danni provocati alla sua abitazione, tutto per aver aderito al mio pericoloso piano, concepito per far uscire allo scoperto la misteriosa talpa. In fondo, l’avevo quasi costretto ad accettare questa soluzione, come l’unica in grado di completare le nostre ricerche. Aveva accettato il rischio a malincuore, non essendo mai stato abituato a conviverci. In vita sua, aveva sempre cercato di sfuggire ai pericoli. La sua carriera universitaria, per altro rilevante e significativa, testimonia una precisa scelta di vita, tranquilla e dedicata principalmente allo studio e alla ricerca, non certo all’azione o al sotterfugio. Chiarito, ma di certo non archiviato completamente, il poco riuscito coinvolgimento del Lombardi, iniziai a chiedergli di dirmi tutto quello che aveva scoperto. «Ho diverse informazioni da riferirti, alcune di queste sono decisamente importanti. La prima, in ordine di tempo, riguarda il passaparola che, qualche giorno addietro, avevo chiesto di iniziare tra alcuni dei miei colleghi dell’università, esperti di storia ecclesiastica.
«Informai di essere interessato, per una ricerca personale, ad alcune informazioni e scritti riguardanti la Santa Inquisizione, nel periodo compreso tra i due papati, quello di Paolo IV e quello di Pio V, chiedendo, in particolare, l'influenza avuta sulle chiese di Padova e Ferrara coinvolte. «L’esito di questa mia iniziativa non tardò a farsi attendere. Infatti, il giorno dopo mi telefonò Augusto, un caro amico, compagno di scuola alle superiori e grande esperto del cattolicesimo. L’anno scorso condusse un’importante ricerca per la Diocesi di Padova e successivamente anche per quella di Ferrara. «Per il suo lavoro fu fondamentale l’incontro avuto nella città estense con un anziano frate domenicano. Tebaldino Querini era il suo nome e abitava vicino alla chiesa di San Domenico, o meglio, in una viuzza appena dietro essa, la prima porta a destra quando si entra nella stradina che costeggia la stessa basilica. «Mi ha parlato di un arzillo vecchietto di 86 anni, forse già 87, dotato di una memoria prodigiosa e in possesso di incartamenti, talmente rari, che, forse, nemmeno gli archivi di Stato riescono ad avere. Il mio confidente è sicuro che Querini possa darci importanti informazioni.» «Domani mattina sarà la nostra prima tappa,» approvai, condividendo il programma di Samuele. «La seconda cosa riguarda un elenco di vittime dell’Inquisizione, nel periodo che avevo indicato ai miei colleghi.» «Questa lista delle persone, coinvolte o uccise nella caccia alle streghe, sarà sicuramente utile. Potremo collegare questi antichi nomi con quelli presenti oggi. Potremo, anche, individuare persone sospette dai cognomi degli ascendenti perseguitati,» dissi fiducioso. «Certamente, è sicuro!» Confermò il professore. «Spero facciano in fretta a mandarmi l’e-mail con la preziosa lista. Adesso, vorrei tornare a parlarti di quel Villanova, che sembra aver avuto accesso al manoscritto maleficus, averlo letto e successivamente averlo sottratto alle grinfie dell’Inquisizione, senza riuscire, però, a salvare il suo amico, Pietro d’Abano, che venne giustiziato. «Avrebbe poi conservato questo importante documento per servirsene, in un futuro momento di difficoltà. Potrebbe averne parlato, in seguito, al signore di Sardegna, Branca Doria, di cui era il medico. Branca era un astuto e temuto politico di parte ghibellina, a cui avrebbe fatto sicuramente comodo uno scritto che avrebbe potuto usare, come una chiave diplomatica, contro i nemici Guelfi e il papato. L’ipotesi che il manoscritto fosse arrivato nelle mani del Doria era compatibile anche con l’avversione, nei suoi confronti, mai sopita e manifestata più volte, anche per iscritto, del Sommo Poeta. «Dante e il Doria s’incontrarono in diverse occasioni, forse, proprio per la restituzione del prezioso documento, che il Branca aveva ricevuto dal Villanova. L’astio, nei confronti del signore ligure, si ritroverà nel canto XXXIII dell’Inferno, dove Dante lo inserì nei «Traditori degli ospiti.» «Quindi il Poeta rimase a mani vuote?» Cercando una conferma a quello che avevo inteso nelle parole del professore. «Esatto, l’unico modo affinché il documento potesse arrivare alla corte degli estensi, come sappiamo essere poi accaduto, era che rimanesse in possesso del Branca e che successivamente lo potesse lasciare in eredità alla nipote, Valentina Doria, che lui aveva fatto sposare con il signore di Milano, tale Stefano Visconti. «Così, lo scritto fu conservato nella biblioteca di Pavia, dove i visconti avevano tutti gli archivi storici. Il passaggio del manoscritto alla corte di Ferrara potrebbe essere avvenuto, pare, con un colpo di mano eseguito da sgherri al soldo degli estensi, trafugandolo durante le nozze di Beatrice d’Este e Ludovico il Moro nel 1491. «La cerimonia nuziale si tenne nella città pavese, per non offendere il legittimo duca di Milano: Gian Galeazzo.» «Quindi, se ho ben capito, la giovane Beatrice, forse manovrata abilmente dallo stesso Enrico I, fece il doppio gioco a favore degli estensi, portando in dote a Ferrara il prezioso manoscritto originale, che sarebbe sicuramente servito alla città e ai suoi duchi per combattere lo strapotere della Chiesa. Tutto molto interessante, direi che è quello che è realmente accaduto. È sicuramente percorso storico fatto dal nostro misterioso scritto. Sarei curioso di sapere in che mani si trova adesso, anche se una mezza idea potrei averla.» «Teoricamente, caro Leo, potrebbe essere racchiuso, da secoli, nelle segrete vaticane. Dovrebbe esserne entrato in possesso il papa Clemente VIII, quando Alfonso II fu costretto a cedere il ducato, nel 1597. Se così fosse, sarebbe una brutta notizia, soprattutto per i nostri della Congrega dell’Aquila. Potrebbero dare un addio definitivo alla loro forsennata ricerca, fallendo il loro obiettivo primario,» concluse Samuele, quasi compiaciuto. «Ora, però, buttiamoci a capofitto su questo delizioso piatto di capesante gratinate, prima che si raffreddino.» Ero decisamente affamato. Fu solo l’antipasto di un’ottima cena, a base di pesce freschissimo e cotto a regola d’arte. Portai alla bocca il lungo calice di cristallo e degustai l’ultimo sorso di prosecco millesimato al suo interno, quando notai, con disappunto, che anche la bottiglia di vino era ormai vuota. Il professore sembrava avere lo sguardo un po’ perso nel nulla, forse per il troppo vino o forse per gli ultimi avvenimenti accaduti. Per sicurezza, volendo ricordargli l’appuntamento per la mattina dopo, in ufficio, lo ripetei un paio di volte, poi lo accompagnai all’albergo e lo salutai, dandogli la buonanotte, anche se non ritenevo fosse, in realtà, necessario.
Ufficio Squadra Anticrimine (Fe)
Ore 09:50 giovedì 29 maggio 2014
«Buongiorno a tutto l’ufficio Anticrimine!» Il professore si presentò così, agitando la mano destra in segno di saluto. «Ti vedo in gran forma, stamattina, hai dormito bene?» Fui sorpreso dal buonumore del mio amico. «Bene, molto bene e ho fatto un’ottima colazione abbondante, caro mio. Sono pronto per andare… dove tu sai.» «Va bene, andiamo subito.» Salutai Alessia, comunicandole che sarei stato in ufficio nel pomeriggio, augurandole, nel contempo, buon lavoro. «Arrivederci dottore, buon lavoro anche a lei,» rispose, sempre più sospettosa per il mio insolito comportamento. Ci dirigemmo, a piedi, verso la chiesa di San Domenico. La distanza dalla questura era irrisoria e l’aria fresca, per la pioggia caduta la notte prima, chiedeva di essere respirata a pieni polmoni. Il tempo per due parole ed eravamo davanti alla porticina d’ingresso dell’abitazione del Querini, proprio dietro la chiesa. Non volevo crederci, guardai subito Samuele, sorridendo divertito e anche lui sembrò meravigliato della presenza di quell’oggetto antiquato. Il campanello, sotto il nome, era uno di quei vecchi cicalini, che si giravano come una chiave, per fargli emettere un suono gracchiante. Ruotai alcune volte lo strano e vecchio aggeggio e attendemmo almeno un paio di minuti, prima che la porta cigolando, non ne avrei dubitato, si aprisse e comparisse un piccolo vecchietto dal volto sorridente. «Buongiorno, chi siete, brave persone?» Chiese, con voce calma e gentile, l’anziano signore. «Sono il vicequestore Ferrari e questo è il professor Lombardi dell’Università di Padova. Purtroppo, non siamo riusciti a fissare un appuntamento prima, perché lei non possiede un numero telefonico rintracciabile.» «E nemmeno un cellulare, per la verità,» rispose, sfoggiando un elegante sorriso ironico. «Attrezzi infernali, utili solo per giochini e far spendere soldi alla povera gente. Se dovessi avere, veramente, la necessità di fare una chiamata, mi faccio prestare il telefono senza filo dal mio vicino!» Come dargli torto, pensai. «Università di Padova, avete detto? Conoscete Augusto Rozzi? È una gran brava persona, molto simpatico e gentile. È stato qui da me l’anno scorso, sapete, doveva fare una ricerca,» riprese a dire, il vecchio frate. «Esatto, padre, è stato lui a indirizzarmi da lei,» garantì il professore, confermando la sua conoscenza. «Abbiamo il piacere di conoscerla, finalmente. Rozzi mi ha parlato tanto di lei e della sua straordinaria conoscenza della storia del cattolicesimo e della vita dei suoi personaggi. Il motivo per cui l’abbiamo disturbata e per cui siamo qui oggi, è che abbiamo, veramente, bisogno di una mano. Sappiamo che lei possiede un’eccezionale memoria storica e documenti introvabili che riguardano Ferrara, dal medioevo al rinascimento. In pratica, noi vorremmo, ringraziandola in anticipo per il suo aiuto e la sua disponibilità, venire a conoscenza degli avvenimenti accaduti nella Chiesa di San Domenico nel periodo dell’Inquisizione.» «Vede, figliuolo, sono un frate domenicano dal 1946. Vidi gli orrori della guerra e immediatamente la vocazione s’impossessò di me, come da tradizione familiare. Infatti, dovete sapere che, già nel 1252 il papa ordinò, a Ferrara, un arcivescovo del nostro nucleo, tale Giovanni Querini, che, tra l’altro, fu sempre in piena sintonia con gli estensi. Anche lo zio Leonardo prima di lui...» «Va bene, è tutto chiaro,» interruppi il frate in modo risoluto, evitando che ci raccontasse tutta la storia della sua ecclesiastica discendenza. «Ho capito, devo darvi notizie importanti per il vostro lavoro di ricerca. Chiedo scusa se ho divagato e parlato dei miei antenati, che però devo sempre ringraziare per avermi lasciato quegli scritti che ora voi mi chiedete di poter consultare.» Il suo tono di voce appariva un po’ risentito, forse per averlo interrotto nel suo racconto. «Aspettate un attimo, vado a cercare qualche documento del periodo che vi interessa. Torno subito, posso offrirvi qualcosa da bere intanto, un tè caldo, un bicchiere d’ acqua fresca, buonissima, del pozzo dietro casa?» «No, grazie, siamo a posto così, aspettiamo qui seduti, faccia pure con calma,» rispose rapido Lombardi, arricciando il naso, guardandomi sorpreso e ripetendo sottovoce: «Acqua del pozzo?» Passarono quindici o forse venti minuti prima che il frate ritornasse nella piccola cucina, dove ci aveva fatto accomodare. «Ecco,» esordì euforico, quasi come fosse la prima volta che vedeva quelle antiche carte, ammuffite dal tempo, «qui c’è sicuramente quello che cercate!» Mi allungò una busta di plastica forata nel lato lungo, come quelle da inserire nei raccoglitori. Conteneva un foglio ingiallito, scritto con un inchiostro ormai sbiadito, opaco. «Questo è del 1235. È scritto in latino medioevale e parla di un domenicano, un certo frate Jacopo Navarra da Ferrara che depositò, nella Cappella Canani, qui in San Domenico, un prezioso manoscritto, riposto e protetto in una cartella di pelle bruna, impreziosita con fregi papali dorati.» Lombardi s’inarcò, si diresse verso di me e come fosse in trance, cercò d’impossessarsi della busta di plastica, contenente il prezioso foglio, per poterlo leggere. «Ecco la prova che cercavamo. Il manoscritto è qui in San Domenico, nascosto da qualche parte!» Lo dichiarò convinto, dopo aver letto quelle poche righe di testo antico. Il vecchio frate lo bloccò immediatamente, togliendogli subito ogni illusione e qualsivoglia certezza. «Non è più in questa chiesa dal 1293. Fu rubato insieme ad altri oggetti sacri, reliquie e opere d’arte. Inoltre, la prego, professore, di mantenere la calma, onde evitare di danneggiare questo prezioso documento, unico e raro.» «Sì, è vero, mi scusi, ero emozionato all’idea di averlo trovato, sembrava una traccia sicura.» Querini continuò: «Lo scritto, come avrà letto, non dice perché il frate avesse depositato nella cappella questa preziosa cartella dorata, né cosa contenesse realmente. “La Chiesa di Ferrara non parlò mai del furto, né lo denunciò. I motivi di questo silenzio non sono mai trapelati. L’unica notizia, che pare essere degna di nota e che ci è stata tramandata, riguarda la paternità del furto. Infatti, venne attribuito a un ladro toscano, che nel periodo in questione avrebbe compiuto altre ruberie nella nostra città. Pare che questo furfante fosse noto in tutta Firenze, per le sue bravate e lì fu anche arrestato, ma riuscì a fuggire dalla prigione gigliata, in cui era stato rinchiuso.» «Vede, Leo, ecco un evidente collegamento con il Poeta fiorentino,» esclamò il professore. «Nella Divina Commedia c’è un passaggio che parla proprio di questo ladro di origine pistoiese e delle sue malefatte. Non ricordo bene dove, ma c’è!» «Bene, adesso abbiamo un’altra buona pista su cui lavorare, lo faremo con molta cura,» conclusi. Ringraziammo il simpatico e utilissimo frate che, improvvisamente, abbracciò Samuele. Gli chiese di ritornare presto a trovarlo. Addusse, come pretesto, l’avere altre importanti notizie per la nostra indagine. «Se mi avvertite prima, posso farvi trovare qualcosa da bere e da mangiare, come si fa con i pellegrini che vengono a visitare la chiesa.» «Lei è molto gentile, padre, torneremo a trovarla, anche solo per salutarla.» Il povero vecchietto si commosse alla mia promessa di rivederlo. Era tanto dolce e solo e queste inaspettate visite lo riempivano di gioia. Devo dire, in verità, che io e, in misura maggiore, anche il professore rimanemmo molto colpiti per il forte isolamento dal mondo esterno di quest’uomo, perso nei suoi ricordi e nelle sue antiche carte. Ci scoprimmo entrambi con gli occhi un po’ lucidi. Ritornando verso l’ufficio, parlammo dell’indizio che ci aveva fornito Querini e valutando fondata l’ipotesi del coinvolgimento dell’Alighieri, decidemmo di modificare l’itinerario e di continuare a elaborare le nostre idee sull’argomento a casa mia. Vista l’ora, sarebbe stato ancora meglio discuterne davanti a un piatto di cibo caldo. «Emma, sono io tesoro,» continuai con un tono gentile, chiedendole se avesse il tempo e la voglia, di preparare un piatto di pasta per me e il professore. «Se venite a pranzo adesso, posso provarci. Oggi, ho lezione molto presto. Non riuscirò, purtroppo, a stare in vostra compagnia, devo essere all’università per le 14:00, mi spiace.» «Va bene, lascia stare, cambio di programma. Andremo a mangiare una pizza veloce e poi verremo dopo a casa, per lavorare. Oggi non voglio andare in ufficio, preferisco parlare, a quattrocchi, con Samuele tra le mura domestiche, per questa volta almeno. Grazie ugualmente, ci vediamo stasera, ciao.» «Ciao, saluta Lombardi per me.»
Casa Ferrari
Ore 14:20 giovedì 29 maggio 2014
«Accomodati, prof, ci sistemiamo qui, in sala da pranzo, il tavolo è più spazioso della scrivania nel mio studio, qui stiamo più larghi, meglio così, no?» «Certamente, qui va benissimo.» «Solo un attimo, vado di là a prendere un po’ di fogli A4 dalla vaschetta della stampante, due penne e un pennarello, poi cominciamo ad analizzare, insieme, quello che abbiamo saputo questa mattina.» Accesi il mio tablet, quindi consegnai al mio amico il necessario per scrivere e un paio di fogli. Iniziai dicendo che poteva essere utile cominciare il nostro lavoro, elaborando un’ipotetica cronologia degli avvenimenti, che a tutt’oggi conosciamo e su cui potevamo riflettere e discutere. «Il nostro frate Navarro, se ho ben capito, riesce a impossessarsi del malefico manoscritto, in barba a qualcuno di molto importante, forse un papa. Così sembrerebbe dai fregi dorati indicati nella lettera che ci ha mostrato il Querini. Perché lo nascose nella chiesa di San Domenico?» Mi aspettavo una risposta che sapevo non essere suffragata da alcuna certezza. «Probabilmente avrà avuto paura che quel testo venisse divulgato. Forse provava grande vergogna per quello che c’era scritto e avrà pensato che il testo, contenuto in quel manoscritto, fosse troppo pericoloso per lasciarlo nel luogo dove si trovava, in origine. Queste sono le sole ipotesi che possiamo fare, non possedendo lo scritto e non potendo verificarne il contenuto.» «Venne rubato, insieme ad altri oggetti preziosi, guarda caso, da un ladro toscano, che potrebbe averlo portato a Firenze, per venderlo con il resto della refurtiva, depredata nella Cappella Canani. L’Alighieri a quel tempo era un personaggio molto influente. Un suo coinvolgimento in questi avvenimenti è molto probabile. Il condizionale è d’obbligo, non avendo la sicurezza che tutto ciò sia realmente accaduto, per sostenere che potrebbe essere entrato in possesso del manoscritto, in quella stessa occasione, anche se ancora non sappiamo come.» «Pietro d’Abano, nella sua lettera al Villanova, in pratica ci confermò che lo scritto in questione era, veramente, transitato nelle mani di Dante, che glielo consegnò personalmente. Scrisse di averlo letto e di quanto fosse rimasto turbato dal suo contenuto eretico. Alla morte del luminare padovano, sappiamo che era stato preso in custodia dal Villanova che lo salvò dalle grinfie della Chiesa, dando inizio a un passaggio di mano in mano, fino ad Alfonso II.» «I fatti sono questi, molto probabilmente è andata così, concordo assolutamente con questa tua cronologia degli avvenimenti,» dichiarai convinto. «Quindi stai dicendo che dobbiamo arrenderci? Il maleficarum adventus antichristi, come lo chiamò il Savonarola, è in qualche posto segreto del Vaticano e non sapremo mai cosa contenesse. Le misteriose Appendici di Dante, invece, erano state, sicuramente, in possesso di Nostradamus, ma poi, di queste, si sono perse le tracce da tempo, senza sapere dove potessero essere, introvabili, anch’esse!» Aggiunsi dispiaciuto. «Non siamo stati molto fortunati, fino a ora. La mia speranza è che, almeno, dai nomi nella lista dei perseguitati dall’Inquisizione, che i colleghi mi manderanno, sia possibile risalire all’identità della talpa.
Casa Ferrari
Ore 13:30 venerdì 30 maggio 2014
«Tanti auguri a te, tanti auguri a te…» Emma intonò così la banale, ma sempre verde, canzonetta dei compleanni, portando in tavola una golosa Saint Honoré. La torta preferita da mia figlia, fin da quando era piccola. «Non possiamo averti tutto il giorno con noi, quindi la torta la mangiamo oggi a pranzo, se non ti dispiace, bimba mia, anche se non vuoi che ti chiami più così.» «Grazie mamma, ancora per oggi te lo concedo, ma da domani… no.» «Sei maggiorenne, non ci posso credere, sono già passati 18 anni.» «Per cortesia, Emma, non cominciare con queste smancerie. È una donna ormai, come dice una famosa canzone, prendiamone atto e stop,» affermai, sicuro di arruffianarmi la figlia. «Grazie, finalmente qualcuno che ha capito!» Chiara rimarcò il mio pensiero, felice della mia replica alle parole di sua madre. Avevo ottenuto lo scopo, empatia incondizionata nei miei confronti. «Adesso possiamo mangiare la torta e brindare alla tua bella età. Fra poco, però, dobbiamo prepararci e andare. La navetta ci aspetta alle 15:30, dobbiamo essere puntuali.» «Vengo anch’io ad accompagnarla, mi manca già e non è ancora partita!» Concluse, senza possibilità di replica, mia moglie.
Ufficio Squadra Anticrimine (Fe)
Ore 10:10 sabato 31 maggio 2014
«Dottore, ho riunito e salvato tutti i rapporti sulle indagini che mi sono stati consegnati, da lei e dalla scientifica. Li ho raccolti in un unico faldone e in un unico file. L’ho nominato La nemesi dell’Aquila, come lei mi aveva suggerito.» «Ottimo, Alessia, è quello che volevo, ordine e chiarezza di intenti.» «Se mi posso permettere, mancherebbe il rapporto dell’indagine eseguita alle “Corti”, nel castello, dove lei e il professore avete trovato un misterioso manoscritto che il laboratorio della scientifica continua a chiedermi e di cui continuo a non sapere nulla, stranamente.» «Ha ragione di essere preoccupata del mio insolito comportamento. Non posso a tutt’oggi darle spiegazioni. Le prometto che non appena avrò chiarito le questioni in sospeso, sarà la prima persona in questo ufficio a sapere il perché.» «Va bene, le credo, ho fiducia in lei al cento per cento, come sempre.» Pose il faldone sul mio tavolo e senza aggiungere altro si sedette al suo tavolo continuando il suo lavoro al computer. «Dottore, le sto mandando la cartella completa.» «Grazie, Alessia, l’ho ricevuta adesso.» La faccia sorridente del dottor Lombardi apparve all’ingresso della stanza. «Buone nuove, è arrivato un’ora fa. Ho l’elenco che aspettavo da giorni. Il ragazzo dell’hotel gentilmente si è offerto di stampare l’e-mail, arrivata sul mio telefono.» «Due fogli con tutti i nomi, cognomi e date. Si riferiscono a persone perseguitate e uccise nel 1500. Hai tempo di dargli un’occhiata subito?» «Certamente, era ora, grazie.» Era un elenco abbastanza lungo, a occhio e croce si trattava di una trentina di nomi.
Tre distinte colonne, utilizzando il programma Excel. A sinistra il nome e cognome della vittima, al centro il modo e il luogo con l’anno della morte e nell’ultima colonna il nome dell’inquisitore e/o del papa mandatario. Cominciai a leggere dal primo della lista:
Giovanni Della Dia; impiccagione XVI secolo; Carlo Borromeo, Pio V.
Pietro Carnesecchi; morto bruciato, Roma XVI secolo; Pio V.
Fanino Fanini; impiccato, bruciato sul rogo a Ferrara 1567; Ghisleri Antonio, Girolamo Papino, papa Giulio III.
Giorgio Rioli; morto bruciato 1551; Ghisleri Antonio, Paolo IV.
Continuai a leggere, fino a quando… l’occhio non si posò su quei tre nomi, uno sotto l’altro:
Elisabetta Zocchi; morta bruciata 1559; Rolandi Sebagiano, Paolo IV.
Vincenza Ferrarese; morta bruciata 1559; Rolandi Sebagiano, Paolo IV.
Francesco Severi; decapitato e cadavere arso sul rogo 1570; Girolamo Papino, papa Pio V.
Trattenni il respiro, la bocca si storse in una smorfia di stupore e incredulo di quello che stavo leggendo, esclamai: «No, maledizione, no… ti prego, non può essere vero!» «Cosa succede?» Si preoccupò Alessia. «Che hai trovato, Leo?» Gli fece eco il professore. «Ho trovato quello che non avrei mai voluto scoprire!» «Devo andare via immediatamente, scusate, ma devo proprio.» Mi congedai in fretta e furia da loro, raccolsi dalla scrivania i due fogli e mi diressi velocemente al parcheggio. Iniziai a premere, per prima, l’icona che corrispondeva al numero memorizzato di Chiara. Nessuna risposta, e la suoneria che ripeteva a vuoto le stesse quattro note mi agitava ancora di più. Allora provai al cellulare di mia moglie. Occupato, maledizione…occupato, ancora occupato. Intanto ero arrivato all’auto, finalmente.
Casa Ferrari
Ore 10:40 sabato 31 maggio 2014
«Ciao, Emma, come stai?» Esordì, con tono gentile, la voce maschile al cellulare. «Pronto, chi parla?» Rispose, con tono di voce sospettoso. «Strano che tu non mi riconosca, in fondo non è passato così tanto tempo, solo 18 anni, come quelli di Chiara.» «Piero Zocchi, sei tu, vero?» Pronunciare quel nome le provocava un brivido lungo la schiena e terribili ricordi, di un periodo della sua vita che voleva dimenticare, per sempre. «Non puoi aver dimenticato la mia voce. Non puoi avere rinnegato completamente il tuo ruolo di figlia di Altair. Il tuo è stato un doppio tradimento, alla Congrega e a me, il suo Primogenito. È stata una pugnalata dritta al cuore. Non potrò mai dimenticare quello che mi hai fatto.» «Io non potrò mai perdonarti per avere ucciso tre persone innocenti, in un modo feroce e inumano, la nostra antica fede non contemplava questa brutalità!» «Quattro, sono quattro le persone giustiziate, dimentichi il figlio di Carlo Camponeschi, non fu un incidente.» «Abbiamo finalmente cancellato, eliminato, l’orrenda genia che ha partorito i persecutori e gli assassini dei nostri ascendenti, bruciati sul rogo, impiccati sulla pubblica piazza, come streghe e maghi. Uomini e donne, colpevoli solamente di professare credi diversi da quelli della Chiesa. Furono condannati con prove ingannevoli e false, atte solo a procurare beni materiali e denari, per rimpinguare le già loro gonfie tasche e il loro potere,» sentenziò Zocchi, a voce potente e roca, come fosse posseduto, invasato. «Tu sei impazzito. All’inizio doveva essere solo una specie di caccia al tesoro, trovare un manoscritto perso nel tempo. Un modo per stare insieme e professare una comune passione per le stelle e i misteri che nascondono. Puoi chiamarla una fede, crederci veramente, ma non giustifica quello che state facendo tu e i tuoi seguaci!» «Pensa quello che vuoi, il nostro scopo finale verrà raggiunto, qualsiasi sia il prezzo da pagare. Ma ora parliamo del tuo caro maritino Leone. Lui ha trovato il famoso manoscritto, quello che abbiamo sempre cercato. Quel documento può distruggere la Chiesa, per sempre, e dare finalmente l’onore che merita la nostra Congrega e la nostra Fede, quella vera. Emma, ascolta, lo voglio, adesso, subito!» Urlò minaccioso, sempre più agitato. Improvvisamente il suo tono si abbassò e la voce divenne leziosa. «Ricordi il ragazzo che suonò alla tua porta, felpa di cotone rosso scuro?» Alluse, con tono sarcastico, Zocchi. «Sì, Davide, è un caro amico di mia figlia,» rispose lei. «Il suo cognome è Severi, non ti ricorda qualcosa?» «Mi ricorda Francesco Severi, maledetto bastardo! Non avevo fatto subito il collegamento.» Emma era inferocita e molto turbata dall’inaspettata rivelazione. «È proprio quello il legame, mia cara. Sarai felice di sapere che, in questo momento, Davide è in stretta compagnia della tua amata Chiara.» «Non è possibile, stai mentendo, ha preso la navetta per i Colli Euganei, io e Leo eravamo lì quando è partita con le sue amiche,» rispose lei, sicura di quello che aveva vissuto personalmente. «Forse, ieri sera, sono usciti insieme e poi tua figlia non è più tornata alla spa. Puoi sempre telefonare allo stabilimento, se non mi credi. Adesso basta parlare, voglio quel manoscritto o Chiara muore, sono stato chiaro? Aspetta la mia telefonata,» concluse così Zocchi, interrompendo, di colpo, senza darle il tempo di replicare. Passarono solo pochi secondi, dopo che il sedicente Primogenito dell’Aquila minacciò la morte di mia figlia e prima che Leo bussasse alla porta furiosamente. Emma non si era ancora ripresa dalle terribili parole pronunciate dal suo primo marito. Era rimasta immobile, con il cellulare in mano, ancora appoggiato al suo orecchio. La frase: «Chiara muore,» rimbalzava nella sua testa, frastornandola completamente. Le urla del marito, che chiedeva disperatamente di aprire la porta, arrivavano come ovattate e le parole si confondevano con i suoi peggiori pensieri. «Apri, apri la porta, ti devo parlare subito, Chiara è in pericolo!» Richiamai, con voce sempre più forte, ancora una volta, pieno di rabbia. Emma si trascinò lentamente verso la porta e l’aprì, era distrutta nell’anima, non sapeva, realmente, cosa stesse accadendo, ma cominciava a rendersi conto che il suo silenzio, l’avere nascosto, alla persona che amava, di aver fatto parte di quella criminale Congrega, poteva costarle l’uccisione della sua adorata figlia. Aveva nascosto, per tutto il tempo, un terribile segreto e ormai era troppo tardi per confessare ogni cosa. «L’hanno rapita. La uccideranno se non consegni il manoscritto. Maledetta Congrega, maledetta me,» urlò disperata. Entrai, poi le tolsi le mani che le coprivano il volto e le portai a congiungersi con le mie, stringendole e cercando una difficile complicità emotiva. Lei continuava a imprecare, contro i suoi vecchi amici e a maledirli, cercai di farla ragionare, per quanto, visto il suo umore, era possibile. «Adesso ascoltami, la cosa più importante è salvare nostra figlia. Quando ho letto i cognomi delle vostre antenate bruciate vive, la tua e quella di Zocchi, mi sono sentito morire e la mia prima reazione è stata quella di stringerti le mani sul collo, fino a farti molto male. Poi ho visto stampato su quel foglio il nome Severi e ho capito tutto. Il collegamento tra Davide e tutta la mia famiglia in pericolo è stato immediato. La tua colpa è gravissima. Tu sapevi cosa stava succedendo e chi erano i colpevoli degli omicidi che non mi facevano dormire, che cercavo disperatamente di fermare, quei criminali di cui tu conoscevi, perfettamente, i nomi e i cognomi. È vero, non sei direttamente responsabile di quei morti perché, in fondo, la Congrega faceva parte del tuo passato, di un passato che hai voluto dimenticare. Non posso perdonarti, però. Non avermi detto quello che sapevi mi ha portato a commettere un terribile errore di valutazione. Ho mentito sul recupero del manoscritto e quindi sulla mia indagine. Un manoscritto che non è in mio possesso e non lo è mai stato. Il loculo che lo doveva custodire, nei secoli, era vuoto, completamente vuoto!» «Cosa stai dicendo! Non può essere vero,» esclamò, stupefatta. «Ho finto di averlo, per fare uscire allo scoperto la talpa, che si nasconde all’interno della polizia. Ho sbagliato e sento un forte senso di colpa perché, così facendo, ho messo nei guai Samuele e adesso anche Chiara potrebbe morire per causa mia. «Non potrei vivere con questo rimorso, avrei dovuto proteggerla e non rischiare la sua vita per un’indagine! Un’indagine che sarebbe già conclusa da tempo se tu avessi avuto il coraggio di confessare la tua appartenenza a quel covo di delinquenti. Ora, però, non devo pensare a punire te, per le cazzate che hai fatto, non ne ho il tempo. Devo catturare quei bastardi e per farlo devo prendere tempo e fingere di accontentarli.» Improvvisamente, un tremendo ceffone d’inaudita violenza mi colpì al volto. La rabbia, per quello che non era riuscita a dirmi, esplose senza ritegno verso di me, come se questo potesse darle pace, per il suo orribile sbaglio. Non una parola, le lanciai solo uno sguardo intenso, penetrante, accusatore. Nonostante tutto avrei voluto abbracciarla, stringerla forte a me, perdonarla e dirle che avremmo risolto tutto e che avremmo salvato Chiara dalle grinfie di Zocchi, ma non avvenne, perché il pensiero di farlo, anche se molto forte, non era sufficiente a placare la mia rabbia. La tensione enorme, accumulata fino a quel momento sfociò, per Emma, in un pianto a dirotto. Rimanemmo a guardarci, così, immobili, forse parecchi minuti, lunghissimi minuti, fissando, a volte, le pareti davanti a noi, senza parlare. Avremmo voluto essere stretti l’uno all’altra, come sempre avevamo fatto nei momenti difficili della nostra vita, ma non questa volta. Credo che l’unico pensiero in comune fosse nostra figlia, purtroppo, nelle mani di quei bastardi.
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